Solo a sentire quel numero, quelle quattro cifre, anche in lontananza, citate dalla radio o dalla televisione, il mio stomaco si rivolta e si innesca uno strano meccanismo, come un vecchio registratore a nastro che si riavvolge velocemente per tornare al punto iniziale, il punto da dove è cominciato tutto. Quelli sono stati anni molto particolari, tanti fatti, tante storie, tanti ricordi; alcuni rimossi, altri rimasti perfettamente stampati nella mia memoria. Impressi come quei tatuaggi che ti fai quando sei molto giovane non pensando che dovrai portarteli dietro per tutta la vita, anche quando non vorresti più che sfregiassero la tua pelle. Tanta tristezza, tanto dolore, tanta rabbia. Per me è come se quell’anno fosse cominciato con tre mesi di ritardo, non a gennaio ma a marzo, pochi giorni dopo il mio ventottesimo compleanno, trascorso sicuramente come sempre con la famiglia e qualcuno dei miei amici più cari, ma non me lo ricordo. Come dimenticare la sera del 27 marzo, quando realizzai la foto che è riuscita a sintetizzare in una frazione di secondo l’essenza di questa grande storia. L’intimità tra due grandi amici, la loro complicità, la forza del loro impegno contro la mafia, la capacità di sorridere e di vivere la vita nonostante fossero consapevoli di essere “uomini morti che camminano”. Ma anche il dolore per la loro perdita, e non solo quello dei loro familiari. Questa fotografia è stata adottata dalla gente comune che l’ha trasformata in un vessillo di legalità e tutto questo perché, secondo me, racchiude in sé un gesto vero che ciascuno di noi fa nella vita di tutti i giorni; questa semplicità ci avvicina a Giovanni e Paolo, ci fa sembrare simili a loro, dimostrandoci che quello che pensavano e facevano loro possiamo farlo anche noi. In sintesi, è una fotografia semplice e non una semplice fotografia.