Tony Gentile dicembre, 2016

Li ho trovati i miei bambini

1990, lungo la strada a scorrimento veloce Caltanissetta Agrigento un uomo a bordo di una Ford Fiesta colore amaranto si accorge di essere seguito e quando si rende conto chiaramente che a seguirlo sono i suo assassini ferma l’automobile e comincia a correre nella campagna arida e polverosa. Quei macellai però lo inseguono e dopo avere giocato al tiro al bersaglio, come si fa con una lepre in fuga, lo colpiscono a morte sparandogli nel viso. Sono le 9 del mattino del 21 settembre, hanno appena ucciso, senza pietà, Rosario Livatino, il Giudice Ragazzino. Proprio con questo omicidio cominciarono gli anni 90 che portarono all’uccisione di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli uomini delle loro scorte. Aveva solo 38 anni Rosario e i killer della Stidda lo hanno freddato mentre si recava, come ogni mattina, al palazzo di giustizia di Agrigento dove lavorava come Sostituto Procuratore della Repubblica. Quella mattina non feci in tempo ad arrivare sul luogo del delitto, troppo lontano da Palermo e sarei arrivato quando tutto era finito. Decisi così di coprire quell’evento andando al funerale. Funerale di stato, con tutte le più alte autorità civili e religiose presenti nella piccola chiesa di San Diego a Canicattì, la città natale di Rosario e della sua famiglia. Personaggi in vista, impegnati nella politica e nella lotta alla criminalità mafiosa, gente comune, amici, colleghi. Sicuramente in quella chiesa c’erano anche i suoi assassini o i mandanti di quell’ennesimo omicidio eccellente. Ad un tratto, mentre in chiesa si stava celebrando il rito funebre e nell’attesa che la salma venisse portata fuori, una scena mi colpisce.

Davanti a me un muro di gente, anzi di uomini, solo uomini. Quasi tutti in posa a sfidare il mio obiettivo. Mi fissavano come in un duello d’altri tempi, alcuni sfacciatamente altri quasi nascondendosi e sbucando da dietro le teste. Persino i Carabinieri, che stavano lì, in prima fila per garantire l’ordine pubblico, sembravano posare per me. Devo essere veloce prima che il set si scomponga e scatto velocemente qualche foto. I due bambini in primo piano, simmetricamente al centro dell’immagine, sono perfetti, mi sembra di averli fatti venire apposta, vestiti quasi allo stesso modo, con le loro camicie bianche immacolate che li fanno distinguere da tutti gli altri, e mi guardano, anzi mi fissano sembrano volermi dire qualcosa ma io non capisco. Non capisco perché stanno lì ad aspettare una bara, se vicino ci sono i loro genitori o i fratelli. Canicattì non è Londra, ogni gesto deve essere calcolato, ogni presenza è un segno che può essere interpretato e si può ritorcere contro. Il 1992 ancora deve arrivare e la ribellione sociale contro la mafia deve ancora vedere diversi morti prima di esplodere. La curiosità di conoscere le storie di questi due ragazzini mi ha accompagnato per tanto tempo e col passare degli anni, ogni volta che osservavo questa foto, che e’ una delle mie preferite di sempre, le domande aumentavano: chi saranno oggi, cosa sono diventati, dove vivono, che lavoro fanno e soprattutto la domanda principale – perché erano in piazza quel giorno. Lo scorso anno, a distanza di 26 anni da quel 23 settembre 1990, ho deciso di cercarli. Credevo fosse più complicato ma la tecnologia, che negli ultimi anni ha fatto passi da gigante, mi è stata di grande aiuto. Ho lanciato un input su facebook e in poche ore avevo il numero telefonico di entrambi i bambini. La prima telefonata è stata molto emozionante sembrava quasi che mi aspettassero da così tanto tempo e sono stati disponibilissimi e felici che io li avessi cercati. Gli presento quindi il mio intento di incontrarli a Canicattì, nella stessa piazza, davanti la stessa chiesa, vestiti allo stesso modo, o quasi. Sicuramente voglio la camicia bianca, altrimenti non li riconoscerei. E l’occasione arriva quando con l’amico Domenico Iannacone decidiamo di andare a trovarli per registrare un pezzo della trasmissione I dieci comandamenti che lui sta preparando sulla Sicilia. Si chiamano Francesco e Nunzio. Nunzio adesso vive a Varese e lavora in Svizzera, Francesco invece è rimasto in Sicilia. Erano grandi amici da piccoli e le storie che ci raccontano dimostrano che lo sono ancora. Ci aspettano davanti la chiesa e a distanza li vedo impazienti, camminano nervosamente come due leoni in gabbia, e anche io sono nervoso. Nunzio è da solo perché è venuto da Varese apposta, Francesco ha portato con se tutta la famiglia, suoceri compresi, è un giorno di festa per loro e anche per me. Adesso posso fargli tutte le mie domande. Li ho ritrovati, i miei bambini.

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