1993, domenica, esterno giorno. Segesta è sempre stata una meta particolare, dove è bello trascorrere qualche ora in totale relax all’ombra delle colonne doriche del Tempio Grande. E’ così che ricordo quel pomeriggio di fine settembre in cui decisi di andare a riposarmi e chissà, non si sa mai, scattare qualche fotografia. Ad un tratto, mentre mi godo il rosso del tramonto che radente illumina metà del tempio, nonostante la giornata fosse abbastanza nuvolosa, mi imbatto in un giovane giapponese che armeggia con una piccola fotocamera, la monta su un treppiedi d’altri tempi e comincia ad osservare il sole coprendosi con un cartoncino. Ma che vuole fare, pensai in un primo momento e mi misi da una parte ad osservarlo. Ma osservarlo non bastava, anche io avevo la mia macchina fotografica e mi piaceva. Mi piaceva la luce, mi piaceva il suo stile, il suo gesto. E aspettavo e fotografavo. Ad un tratto appena la luce era quella che lui desiderava, non appena gli ultimi raggi di sole di quel tramonto si fecero spazio tra le nuvole lui azionò qualcosa sulla macchina fotografica, si piazzò velocemente davanti la fotocamera e aspettò il clic. Autoscatto, ecco cosa stava aspettando. Doveva farsi un ritratto, un autoscatto davanti al tempio grande e per questo aveva aspettato pazientemente la luce giusta come dovrebbe fare ogni buon fotografo. Quel giorno cominciò per me un percorso, quell’uomo mi stimolò una curiosità: ma cosa spinge la gente a fotografare, i turisti a scendere da un bus tutti compatti, impugnare le loro macchinette e scattare tutti contemporanemente quasi la steffa foto di un tempio, di una chiesa, di un tramonto; cosa spinge un anziano a fotografare da anni la stessa festa popolare con la sua vecchia instamatic.
Da quel momento ho iniziato a scattare foto di gente che fotografa, nelle situazioni più svariate. Turisti per lo più, ma anche fotografi, mamme e studenti. Insomma tutti.
Erano solo i primi anni 90 e, nonostante già comparivano i primi telefoni cellulari che non potevano proprio essere definiti portatili, nessuno di noi mortali avrebbe mai potuto immaginare come sarebbe cambiato il mondo dei telefonini e della fotografia. Negli anni questa attrazione per la gente che fotografa non mi ha mai lasciato e anche oggi, quando posso cerco di raccontare il cambiamento al punto da scoprire (ma era facile per tutti) che sono diminuite le macchine fotografiche e che hanno lasciato il posto agli smartphone.
Dire che oggi è più difficile fotografare e che gli smartphone costituiscono un problema per i fotografi professionisti è molto vero ma soprattutto perchè ci impediscono fisicamente di fotografare, di vedere la scena a volte e sono sempre più aggressivi con l’uso di aste di ogni genere e di ogni altezza. Questo è veramente un problema, per il resto non credo che la professione del fotogiornalista finirà a causa o per colpa della diffusione degli smartphone o per la concorrenza della gente che fotografa ogni cosa. Rischia di finire per altre ragioni ma questo è un discorso abbastamza complesso da affrontare in questo luogo.
Differente è invece la riflessione che andrebbe fatta sul modo di fotografarsi, e qui ritorna in ballo il mio giapponesino davanti il tempio di Segesta, l’origine di tutto direi. L’autoscatto di una volta, riflessivo, ponderato e centellinato è stato barbaramente ucciso dal selfie, dalla mania del selfie, dall’ossessione di riprendersi, di esserci, di apparire, sempre e ovunque.
Un novello narcisismo che ci sta divorando sempre di più e per il quale non riesco ad immaginare una fine. Certamente è un segno del cambiamento dei tempi e della cultura dei popoli ma forse anche segno della perdita di alcuni valori o di sentimenti che una volta si preferiva o si tendeva a tenere conservati nella propria intimità, nella propria memoria, pronti per essere raccontati nelle serate agli amici più cari. Adesso invece anche il selfie ci ha tolto la possibilità di parlare, bisogna solo vedere. Far vedere le proprie gesta, gli incontri importanti. Tutte cose che sono diventate decisamente più importanti da vedere piuttosto che da raccontare. Quasi come se il mondo fosse improvvisamente diventato diffidente, come se la gente non volesse più credere alle parole degli altri ma avesse bisogno solo di vedere, di avere prove fotografiche per credere nel prossimo.
Certamente tutti elementi da mettere in mano ad un buon strizzacervelli, lui sicuramente sarebbe in grado di spiegarceli. Dopo essersi fatto un bel selfie magari.
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